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"Scegliere di essere chi si è, è guardare la vita di fronte."

Abracadabra - Conversazioni con d'Io

Abracadabra - Conversazioni con d'Io

Abracadabra - Conversazioni con d'Io

E' la storia, in forma di romanzo emozionale, di una ricerca spirituale che coinvolge il Sognatore e il Meditante.

Due personaggi in uno, che intensificano il loro viaggio di conoscenza attraverso un fitto dialogo docente/discente che, attraversando il vissuto dell'uno, testimonia tutta una serie di esperienze e di insegnamenti condotti con un ritmo incessante/pressante teso a ottenere nel lettore il suo risveglio spirituale in antagonismo con abitudini, sottomissioni e addomesticamenti sociali. Il racconto si conclude con un atto di consapevole riconoscimento e di speranza per l'intera umanità.

· Editore: CoseMoltoCreative Editore
· Collana: Frontiere dello spirito
· Anno: 2020
· Lingua: Italiano
· Postfazione: Antonino Contiliano
· Formato: 15x21 cm.
· Prezzo (formato cartaceo): € 15,00
· Prezzo (formato Kindle): € 9,99

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Leggi la Postfazione di Antonino Contiliano

Leggi la Postfazione di Antonino Contiliano

"Un fotone fossile nel paese di Aladino. Il tempo viaggia in posti diversi con persone diverse. Ti dirò con chi il tempo va all’ambio, con chi al trotto, con chi al galoppo, e con chi sta fermo."
William Shakespeare

"La matematica pura è, a modo suo, la poesia delle idee logiche. È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio."
Albert Einstein

A lettura ultimata, molte sono le cose su cui varrebbe la pena di soffermarsi e dire. Bisognerebbe però scrivere parecchi libri e pronti a fare i conti con una scrittura pirotecnica, non standard. La nostra nota per «Abracadabra– “Conversazioni con d’Io”» di Salvatore Giampino (poliartista non nuovo alle provocazioni!) è nell’ordine di una semplice postfazione, o, meglio, nell’intento di lasciare qualche pista di lettura utile per orientamenti possibili. Forse più interrogativi e depistaggi che orientamenti rassicuranti. I codici del ricevente, rispetto allo stile linguistico-comunicativo del trasmettitore, nonostante la comune lingua naturale, non necessariamente utilizzano costanti e variabili con eguale risonanza…

Basterebbe leggere, anticipiamo, sia la nota che la stessa premessa bio-psico-intellettuale (oltre la stessa impersonalità del titolo dell’opera), offerte dall’autore, perché i lettori, così, vi trovino stimoli orientativi molto opportuni. Funzionano come una quasi introduzione alla scrittura delle pagine successive. Una vera e propria dichiarazione di intenti che ognuno potrà mettere a frutto, filtrando le “confessioni” mediante l’insieme e i limiti delle proprie categorie ermeneutiche (nel caso potrebbe sopperire facendo ricorso agli strumenti offerti dalla teoria psicoanalitica classica lì dove, nella nota bio, per esempio, si racconta della elaborazione del lutto per la morte del padre; oppure alla teoria della schizoanalisi materialista anedipica o del desiderio come macchina produttiva lì dove l’Ego e l’IO sono e non sono tali perché insieme sono “Dio” o mente che mente o cervello creatore.

In ogni modo, nessuno può negare all’autore del discorso la consapevolezza di una scelta precisa: la rappresentazionepuntuale che pone la coscienza luogo privilegiato di conoscenza e comunicazione di informazioni e scelte modellate. Un merito (detto per inciso) non trascurabile in tempi in cui la deresponsabilizzazione culturale e politica è habithusmodaiolo di regime.

Ma, solo per un cenno, tornando alle provocazioni, la prima che ci si presenta è il giro di equivalenze foniche e relazionali che il sintagma “d’Io”, o “ESSERE e AVERE” si trascina per tutto l’intreccio argomentativo del libro. Quell’’Io che ora è anche il Tu – «IL VERO AMORE DELLA TUA VITA SEI TU. IL TUO D’IO. SEI TU», p. 137) –, oppure il “Dio sono Io”.

Una pro-vocazione che, ci sembra, non vada disgiunta dalla vocazione a sovrapporre la logica del “sogno” e la ratio della logica con i suoi ferrei rapporti di inferenza e validità argomentativa. Sogno e sognatore, nei diversi capitoli del libro (I/IV), poi, è parola dominante (Il Risveglio è del V; Le voci nella testa è del VI. In fondo troviamo un’Appendice spirituale).

Una logica, questa del sogno, detto brevemente, che ci fa pensare che il soggetto del sogno sia piuttosto sui binari del desiderio gaudente e sbrigliato; una jouissance cioè che esprime la gioia dello scrivere oltre i limiti delle stesse sintesi connettive o disgiuntive dei procedimenti della ratio. Perché se è vero che ogni argomentazione è pensiero, è anche indubbio che non ogni pensiero (tanto meno un desiderio) è un’argomentazione.

Tralasceremo cose (non facilmente disambiguabili) come la parola “ESSERE”, ripetutamente maiuscolata e/o usata all’infinito (un uso universale che sembra con-fondere l’accezione verbale ed esistenziale, in genere, del termine), o l’abbondanza grafica dell’uso del maiuscolo, o del virgolettato, o del corsivo, o dello stile che, tra il discorsivo e la tentazione, forse, aforismatica, sono parte integrante del testo in “analisi”.

Così non è possibile non sottolineare che ci si trovi davanti a scelte di fondo modellistiche fortemente soggettive, se a dominare è la lingua dell’amore (ma la natura non insegna l’amore: nessuno – ha scritto Lautréamont – si innamorerebbe se non avesse per prima sentito parlare d’amore o letto un romanzo d’amore), del sentire, dell’emozionale, del naturale destoricizzato e dell’illuminazione spirituale, mentre la «“confusione – è scritto – è uno stato di grazia se la si utilizza e non la si subisce. [...] vuol dire essere e prendere coscienza che occorre agire per cambiare [...], scavalcando l’Ego, vuol dire utilizzare la confusione per accedere [...] alla chiarezza [...] in uno stato di accettazione Dinamica”.» (p. 137). E il cambiamento, naturalmente, è quello del corpo che ha già i suoi “organi” di smistamento rappresentativi e affettivi. Non ci sembra, lo diciamo con tutto riserbo, che sia il “corpo senza organi” della schizoanalisi materialista (G. Deleuze/F.Guattari) o del “corpo nero” della fisica quanto-relativistica (ci sono, in “Abracadabra”, riferimenti di supporto anche a questa teoria…).

Sono scelte che hanno delle ragioni, ma non sempre sono della ragione cui noi, tra esperimenti mentali e sperimentazioni di laboratorio, siamo abituati. Una tale scelta certamente rende non facilmente lineare i rapporti tra linguaggio, pensiero e ragionamenti o forma e cose messe in forma, se è vero che il pensiero vede la realtà prima nel linguaggio, che la modifica nelle sue categorie conoscitive e pratiche. E se ogni ragionamento sviluppa un pensiero, non ogni pensiero, solo per questo, è anche un ragionamento o un argomentare logicamente corretto. Se volte a seguire verità oggettive, concatenando intuizione, induzione, deduzione, abduzione, trasduzione, le proposizioni del discorso non hanno meno bisogno di attenzione alle funzioni razionali delle inferenze e della validità le rapportano (l’accordo può essere psicologico, ma non logico); e ciò, evidentemente, per evitare le trappole dei ragionamenti scorretti e le ambiguità del linguaggio in agguato. Ogni conclusione, per ciò, segue o meno dalle premesse dichiarate o presupposte, sì che gli argomenti sono conseguenzialmente ben connessi per inferenza, o, se non ben connessi, scorretti e fallaci. Vi sono infatti argomenti validi con conclusioni false e argomenti invalidi con conclusioni vere. Così: 1) proposizioni false ma valide: tutti i ragni hanno sei zampe, tutte le creature a sei zampe hanno le ali, tutti i ragni hanno le ali; 2) premesse e conclusioni vere ma invalide: se possedessi tutto l’oro della banca, allora sarei ricco, non possiedo tutto l’oro della banca, allora non sono ricco.

Ma dove si pecca per inferenza formale e insieme per ambiguità (inferenza informale) del linguaggio, certo è che il pensiero non può giovarsi del ragionamento e dei suoi vincoli logici; motivo per cui né l’empatia psicologica, né la sola coscienza interiore (polo comunque essenziale e ineliminabile per ogni elaborazione teorica e dialogica) possono supplire e presentarsi come veicolo sufficiente per conservare e trasmette le informazioni di una comunicazione oggettiva. In tal senso (estrapolando), qui, si lascia parlare da solo uno dei gomitoli di “Abracadabra”:

@ Il mondo è consumato dal suo stesso divenire. Il divenire è fondato sul passato che non esiste più. Dunque, il divenire è solo ambizione ed è fittizio. Se il divenire è fittizio, non esiste. Non esistendo, il divenire non è nell’essere. Dunque, solo essere nell’Adesso è nell’essere, e vuole dire essere liberi dal tempo. Ecco il motivo per cui il tempo non esiste. E, per conseguenza, essere nell’adesso è il più alto momento di trasformazione continua. (Le voci nella testa, Cap. VI, p. 127).

Tra questi “gnommeri”, le voci e le riflessioni di “Abracadabra”, al lettore, propongono, legandone con velocità la voce all’“amore” di sé (ma facciamo solo cenno), la cosa che si chiama “lavoro precario”; nella posizione, tuttavia, manca il suo controcampo generatore e asimmetrico, il neocapitalismo neoliberistico odierno. L’asimmetrica idra del kapitale (il capitalismo e le sue evoluzioni/rivoluzioni nel tempo) è la sorgente infatti che identifica il “sé” di ogni ego individuale con l’identità del prosumer, che con amore e passione concorrenziale individualistica, cura poi la precarietà e l’insicurezza propria come quella degli altri concorrenti, sulle piste dei mercati finanziari onnipotenti e dominanti, il sistema di produzione, produttività e riproduzione della modernizzazione kapital-neoliberista.

Ma il lato di questo lavoro – “Abracadabra” (così sventagliato e tematicamente pluriversato) – che, stimolante, ci intriga in maniera particolare è l’intramontabile questione relativa alle categorie del caso, delle necessità e del tempo che, in generale, significano il concetto di esistenza e realtà. Le dimensioni cioè della vita naturale e storica dell’umanità che, non senza dolori e controversie ai limiti delle follie dogmatiche, sono state toccate, analizzate e formalizzate dai vari campi del sapere (letteratura, religione, arte, teologia, scienza, filosofia, poesia, psicoanalisi, antropologia…). E non è un caso (lo ricordiamo solamente) che i ringraziamenti – trovati a fine lavoro (p. 145) – vanno a certi maestri dell’universo culturale di confine: Buddah, Dalai Lama, Gesù Cristo, Juddu Krishnamurti, Maxence Fermine, Don Miguel Ruiz, Echart Tolle, Mike Dooley, Franco Battiato, Franz Kafka, Albert Einstein (referenti che fanno tremare i polsi e le vene). Nomi che, detto schematicamente, sulla questione della/e verità, esistenza, realtà, interiorità, esteriorità, coscienza, consapevolezza, corpo, anima, mente, illusione, immaginazione etc. hanno lasciato di che masticare, nel tempo, a tempo eterno, dottrine e opinioni.

Il lato che però stimola, in modo particolare, la nostra curiosità ha due fori: il fatto che l’Ego di “Abracadabra”, nonostante evoluzione e dati sperimentali verificati (esperimenti/ipotesi non solamente mentali o di pensiero astratto e speculativo) neghi la realtà del caso e del tempo; e ciò nonostante il nostro ci tuffi nelle orbite della fisica quanto-relativista e fra le posizioni del tormentato Albert Einstein che, di fronte all’inaggirabile principio di indeterminazione e incertezza acclarati da Bhor, Heisemberg, Planck e Born continuava a dire che Dio non poteva giocare a dadi.

Ma noi, qui, schematicamente (e avanti), a fronte della negazione della realtà del tempo nella perfezione del cerchio “magico” di “Abracadabra”, ancorandoci a contro-esempi teorico-sperimentali, e già verificati nei laboratori dei grandi acceleratori di particelle (tra cui appunto la particella del tempo e, nel mondo dello zoo quantistico, chiamata “stranezza”), diciamo che la “freccia del tempo” c’è. Il tempo è reale e irreversibile.

Per la questione relativa all’esistenza o meno del “caso”, lì dove “Abracadabra” scrive che […] la vita non è un caso, né nasce e si perpetua per caso. Il caso non esiste, così come non esistono le coincidenze. Tutto è realmente pensato e voluto dal nostro cervello creatore che muove ogni cosa, dentro e fuori di noi. Concordo, invece, sull’eternità e sul tempo: non esistono; e la loro relatività è così palese che sto scrivendo qualcosa in un tempo che già non esiste più. Potrei, addirittura, non esistere già più io. Tu mi leggerai, ma nel momento in cui mi leggerai, come un respiro, lontano byte-luce, potrei essere già sparito. Penso che il tempo sia un fluido continuo senza passato né futuro, ma che viva solo del presente che è già passato e futuro insieme. “In assenza di quello che non esiste, quello che esiste non c’è!”(Le voci nella testa, p. 116),

E' proprio il caso di non dimenticare il mondo delle mutazionistorico-ambientali-de-antropomorfizzate darwiniane e quello della biologia molecolare di Jacques Monod: Il caso e la necessità Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea (1970); l’osservazione e lo studio molecolare cioè che hanno consentito a Monod di registrare la nuova alleanza materiale immanente tra la contingenza, l’aleatorio e la necessità nell’intreccio degli eventi naturali, temporalmente contestualizzati e determinati.

Ciò, naturalmente, non vuol dire misconoscere gli effetti prodotti dallo spirito umano o dalla cultura, ma è voler evitare gli scogli psico-spiritualizzanti e idealizzanti lì dove si premia la priorità della coscienza e della coscienza del “sé”, eclissando sulla stessa natura linguistica della coscienza. La coscienza che, mista al “cervello creatore” (altrove “mente che mente” o “bugiarda”), l’autore di “Abracadabra” ci si presenta, sembra, come il dio idealizzante nascosto e, anche, almeno così ci pare, sua rappresentazione.

Un cerchio perfetto, neanche un’ellisse a due fuochi, o quella aleatorio-stocastica e statistica dell’orbita dell’elettrone che naviga attorno al nucleo dell’atomo e “magicamente” saltella da una posizione ad un’altra. Una chiusura (l’immagine del cerchio) affatto convincente ma sicuramente favorevole invito al confronto delle posizioni (e questo, crediamo, è merito non trascurabile che va riconosciuto alle pagine di “Abracadabra” di Salvatore Giampino).

La figura del cerchio, espressione di un tracciato reversibile e simbolo del perfetto ordine atemporale della teoria fisica classica, sebbene “Abracadabra” ringrazi e chiami lo stesso Albert Einstein a testimone – “Finché le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, esse non sono certe. E nella misura in cui non sono certe, non si riferiscono alla realtà.” (p. 123) –, tuttavia non regge. E non regge perché lo stesso Einstein, in concomitanza con il quantum di energia messo appunto da Max Planck, non era serenamente convinto che Dio non giocasse a dadi. Il mondo dei quanta testava e testa un’irrefutabile aleatorietà dei fenomeni atomici. Albert Einstein si rifiutava di aderire ai risultati delle prove sperimentali; rimaneva fedele alla credenza dogmatica piuttosto che alla scienza sperimentale (in più occasioni scriveva/diceva ai suoi avversari che Dio, sì, è sottile, non malizioso). La mente di Einstein non era, come quella di “Abracadabra”, una mente che mente,“bugiarda”. Ma le righe di “Abracadabra” di Salvatore Giampino, come la credenza metafisica di A. Einstein, sembrano dirci pure che l’amore di sé, l’illuminazione spirituale/emozionale/naturale (punto di Archimede destoricizzato e modus cognitivo funzionale) e l’UNO del “flusso dell’energia” possano e debbano sintonizzare ogni Ego (la parte cosciente dell’Io), il tu e l’altro sull’onda della metafisica spiritualità emozionale.

Una costante, questa dei fuochi in Uno; una costante che non lascia nessuna pagina del libro. Qualunque sia il tasto pigiato: angoscia e colpa per la perdita del padre (forse il tema della psicoanalisi – odierna – dell’evaporazione del padre?), amore, odio, mercato, denaro, lavoro, precarietà, sport, delirio, follia, sogni, naturalezza, artificialità, parvenza, apparenza, caso, necessità etc. Per cui, secondo il narratore-autore, l’“ESSERE” è UNO e fuori dal tempo, non nel tempo (la preposizione articolata “nel” del tempo – in quel particolare momento del tempo: né prima né dopo – e la sua funzione di apertura e di incertezza relazionale perdono peso e verità.

Il tempo per “Abracadabra”, seppur in presenza del “pluriverso”, non può esistere perché la naturalità espunge l’artificiale o le astrazioni matematiche e probabilistiche. Albert Einstein dixit: «Finché le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, non sono certe, e finché sono certe, non si riferiscono alla realtà». Un mondo dove il caso, l’aleatorio, la contingenza e l’evoluzione temporale destabilizzano l’ordine, facendolo evolvere nel tempo, non poteva turbare l’ordine divino. Ciò nonostante però – creativo-profetica la mente, non “bugiarda”, negli sviluppi e nelle successive integrazioni della teoria della relatività – E = mc 2 –, il tempo come quarta dimensione dello spazio matematizzato crollava sia per via teorica che sperimentale. La riduzione già di per sé era discutibile perché c’è di mezzo l’analogia del “come”: il tempo come se fosse la quarta dimensione spaziale (della dimostrazione, applicando il noto teorema di Pitagora, se ne occupò – ne diciamo solo il nome – il matematico Herman Minkowski).

Senza considerare la molteplicità dei tempi differenti di cui gode ogni livello della realtà che ci appartiene, non c’è, tuttavia, equazione, o rapporto, o trattamento spaziale, o credenza emotiva che possa nientificare l’esistenza del tempo come realtà concreta: una realtà indipendente e immanente correlazione che fa del mondo e del cosmo un caosmo a struttura relazionale (è l’altro lato della “VI Tesi” su Feuerbach: la vita sociale e umana come l’insieme dei rapporti sociali).

Così, e schematicamente, sulla realtà del tempo (cosa che “Abracadabra” nega insieme al caso), richiamiamo solo due degli esperimenti quanto-relativisti sulla particella atomica “stranezza” (il nome dato al tempo): uno riguarda la particella quanto-relativistica chiamata«»(kaone) con il suo neutro e anti-neutro; l’altro ha a che fare con i numeri immaginari (a suo tempo tanto vilipesi come fantasticheria) che, rapportando la grandezza “c2” (la velocità della luce – accelerazione di accelerazione) alle distanze spaziali della luce, testimoniano invece dell’indipendenza della realtà del tempo. L’esperimento mentale è opera, soprattutto, di James Hartle/ Stephen Hawking.

Il kaone

Il kaone è un elemento subnucleare a natura ibrido-neutra (kaone-neutro e kaone-anti-neutro), cosa che, durante le interazioni nucleari tra forze deboli e forti, gli dà la possibilità di fare emergere sia l’esistenza della particella chiamata “stranezza” (tempo) sia l’“anti-stranezza”, mentre un mutuo processo immanente di emissione e riassorbimento radioattivo differenzia gli intervalli temporali. I tempi di transizione non sono istantaneo-simmetrici, come previsto dall’equazione a-temporale della fisica classica delle “palle di biliardo”. il tempo di decadimento del kaone infatti è più lungo rispetto all’altro. kaone anti-kaone neutro infatti mostra una tendenza a trascorrere più tempo che come kaone-neutro. Da questo comportamento inatteso si deduce che il kaone possiede un senso intrinseco “passato‐futuro”. Questa asimmetria temporale, che agita il subnucleare, come la stessa asimmetria materia-antimateria (connessa al fenomeno), «è legata al fatto che la velocità con cui il kaone diventa anti-kaone non controbilancia perfettamente il processo inverso con il quale l’antikaone diventa kaone» (Paul Davies, I misteri del tempo, 1977). Ma c’è anche il tempo 10 – 43s misura di Planck (circa tredici miliardi di anni addietro), il tempo che data la nascita dell’universo e del cosmo big bang.

Una deduzione e una misura, queste, sul tempo di tutt’altra natura rispetto a quella di “Abracadabra”, il cui soggetto sognante deduce che il tempo, nonostante i differenziali sperimentati, sia un’illusione. Ma ciò, al contempo, non impedisce alla magia saltellante del desiderio soggettivo del sognante di dire che esiste l’istante o l’adesso del presente come momento temporalizzato, e dentro la stessa coscienza del sé.

Numeri immaginari e tempo

Noto è il fatto che la velocità – rapporto spazio/tempo – della luce (300.000 km/s) permette considerare il tempo stesso “come se fosse” (equivalenza) la quarta dimensione dello spazio (il tempo ridotto allo spazio e alle misure reversibili della geometria a-temporale).

Ma l’equivalenza non è identità.

Il tempo della velocità della luce, espresso in secondi, infatti, non è riducibile a distanze spaziali quantificabili in km o metri. Vengono fuori, infatti, diagrammi che provano come il tempo, nonostante intrecciato alle dimensioni spaziali, abbia realtà autonoma.

A certe velocità, infatti, o distanze prossime o superiori a quelle della luce, il “come se” verifica piuttosto la negazione o il contrario della vantata equivalenzadi spazio e tempo.

A dircelo non sono solo i paradossi, ma gli stessi numeri ‘negativi’ e ‘immaginari’ che vengono fuori dai calcoli. Quando gli 8 minuti che la luce impiega per arrivare a destinazione passano, per esempio, dai secondi ai minuti, o aumentiamo gli intervalli oltremodo minimali a velocità prossime/oltre la velocità stessa della luce, sono necessari, infatti, i numeri “non naturali”; cioè i numeri negativi (“-2”,per esempio) gli immaginari(“i”) che saltano dall’estrazione della quadrata del numero negativo. E sono questi, i numeri immaginari, che testimoniano sulla non riducibilità del tempo alla spazialità, mentre ne affermano l’autonoma realtà. L’esempio più semplice è quello relativo alla misurazione di due eventi successivi nello stesso luogo: qui la separazione spaziale è pari a zero, mentre si profilal’affacciarsi di un numero immaginario. Il fatto che salti fuori “” – numero immaginario – è un segno che spazio e tempo non si mescolano completamente tra loro. La presenza del numero immaginario gli intervalli di tempo mentre la sua assenza indica che stiamo trattando separazioni spaziali. Lo spazio rimane spazio e il tempo rimane tempo: lo ricorda, appunto, la presenza dell’ “i”; il tempo è reale autonomo e neanche la quarta dimensione né dimensione spaziale.

A causa della grande velocità della luce, sappiamo che un piccolo intervallo di tempo, per esempio, un secondo vale 300.000 chilometri di spazio. Se poi vogliamo calcolare, per esempio, la distanza spazio-temporale (150 milioni km) tra la Terra alle ore tredici e il Sole alle tredici e 5 minuti, dobbiamo applicare la formula di Herman Minkowski. Per cui i150 milioni di chilometri, levati al quadrato, diventano 22.500.000 miliardi di chilometri quadrati, mentre i cinque minuti moltiplicati per la velocità della luce fanno circa 90 milioni di chilometri che, elevati al quadrato, diventano 8.100.000 miliardi di chilometri quadrati. Adesso dobbiamo eseguire la sottrazione decisiva: 22.500.000 miliardi meno 8.100.000 miliardi è uguale a 14.400.000 miliardi. Alla fine, estraendo la radice quadrata, otteniamo per l’intervallo spazio-temporale tra questi due eventi il valore di 120 milioni di chilometri. Notiamo che questa cifra è inferiore alla distanza spaziale di ben 30 milioni di chilometri. Ovviamente, maggiore è la separazione nel tempo, minore sarà il risultato finale. Se consideriamo il secondo evento alle tredici e 8 minuti, avremo un intervallo spazio-temporale di soli 42 milioni di chilometri. Con 8 minuti e 20 secondi di differenza temporale, l’intervallo spazio-temporale si ridurrebbe virtualmente a zero. […] I guai cominciano quando la differenza temporale è superiore a 8 minuti e 20 secondi. Consideriamo le tredici e 10 minuti. Il tempo elevato al quadrato dà ora un valore di 32.400.000 miliardi, quindi superiore ai 22.500.000 miliardi da cui dobbiamo sottrarlo. Il risultato sarà così un numero negativo: - 9.900.000 miliardi. Ma arriviamo al passaggio finale: estrarre la radice quadrata per trovare la distanza spaziotemporale. Estrarre la radice quadrata di un numero negativo significa ottenere come risultato un numero immaginario. […] Da un punto di vista fisico, se la distanza spazio-temporale è immaginaria, ciò significa semplicemente che i punti in esame hanno una maggiore separazione nel tempo di quanta ne abbiano nello spazio. […] Il fatto che i salti fuori quando calcoliamo alcuni intervalli spaziotemporali e non altri è un segno che spazio e tempo non si mescolano completamente tra loro. La presenza di i contraddistingue gli intervalli di tempo mentre la sua assenza indica che stiamo trattando separazioni spaziali: la distinzione è chiara. […] lo spazio rimane tuttavia spazio e il tempo rimane tempo. […] Naturalmente lo scambio e la fusione dello spazio e del tempo non sono evidenti nella vita quotidiana. Questo effetto è limitato a intervalli piccolissimi (circa 10-33 centimetri di spazio e 10-43 secondi di tempo). Tuttavia, se si verifica, cambia in maniera profonda la natura dell’enigma del Primo Evento. La commistione quantistica non è qualcosa di discontinuo: il tempo può venir mescolato di poco o di molto, il che significa che sarà poco o molto spazializzato. Possiamo immaginare una sequenza continua dove il tempo «inizia» come spazio e gradualmente «diventa» tempo. (Oppure, nel linguaggio del tempo al contrario, il tempo gradualmente svanisce a mano a mano che risaliamo all’in-dietro nel tempo verso l’origine.) […] D’altro canto, il tempo non si estende all’indietro all’infinito. […] Nella teoria, la durata del tempo è limitata in maniera definita, ma non c’è né un Primo Evento, né un’origine improvvisa, singolare e soprannaturale. (Paul Davies, I misteri del tempo,1997)

Per chiudere la nostra nota per “Abracadabra” non sarebbe fuori luogo, forse, dire che le pagine di questa riflessione di Salvatore Giampino potrebbero essere lette quale intreccio combinatorio di quella “fantasia” che Italo Calvino ha definito come “macchia elettronica” creativa. Certo è, comunque, il fatto che nella sua tensione di ricerca di verità e realtà, la scrittura del nostro pone anche e ancora il bisogno per l’ánthrōpos di scavare fra le pieghe del vuoto, che non è il nulla.

In questa direzione dove il virtuale in quanto tale è reale, sebbene non attuale e suscettibile potentia di effettuazione, l’ánthrōpos, come il tempo, ha però una sua nascita e una fine nel tempo. La nascita dell’uomo risale a circa quattro miliardi di anni fa. Non sappiamo quando scomparirà e se scomparirà così come è spuntato (l’accadere dell’evento è la necessità del contingente). La “nascita” del tempo, in una con il caosmo, per suo verso, risale invece a circa 13 miliardi di anni fa. Testimonianza ne sono i “fotoni fossili” e, nel caso, anche, contemporaneamente, la testimonianza della sua eternità come durata ed esistenza reale che si espande (non è certamente l’eternità divina come immobile e durata ab-soluta o il desiderio di una coscienza che si privilegia come sorgente e centro, oppure lampada di Aladino). Ma la lampada di Aladino non fa luce se non dove c’è anche la simultanea azione di un fotone “schizo”, o la mutua interazione tra caso e necessità (la nuova determinazione che sorge dall’incontro; non a caso Jacques Monod riprendeva il pensiero del vecchio Democrito – “Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità” – e di Albert Camus dell’umano come la storia di Sisifo – che fa rotolare eternamente il macigno dopo aver riportato in cima alla montagna – o come un “cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino”). Azioni che, in un modo o nell’altro, danno vita al divenire dei paradossi come ulteriori stimoli che rendono insonne la ricerca e gli approfondimenti evolutivi. Un campo dal quale, nel rispetto dei codici, le diverse forme della scrittura aprono comunque delle finestre significative.

La freccia del tempo
il respiro della brezza, la tua distanza
desiderio del pensiero nell’osceno dominante
storia sdorata, spettacolo del disincanto
che brilla come una mina dell'ultima
notte, la tenda che chiude la finestra
alla banchina del sogno attraccata
fra gli acuti del faro nel porto sgomenti
per l'opposto reale sedotto e abbandonato
in panchina le armi della critica
e la quiete senza la tempesta dopo
e lo sdegno che si fuma in discoteca
***
se questa è la freccia entropica del tempo
e la velocità della luce perde la neghentropia
il senso che deraglia incantevole l’oppressione
è il niño allora che deve cantare casuale
e la turbolenza del pugno bandire grido
lancinante come la ferita a morte
e per la tangenza in fuga sradicare
termonucleare le pieghe della terra
e farfalla urtare la schiena delle onde
e virtuale il vuoto della memoria
quantiche ripescare le stelle sulle nuvole
e leggerle leggere il non-essere-ancora
e nelle vene esploso sparare
il collasso del tuo amore assente
o riso seducente dell’arco critico
in viaggio sui tremori del vento
verso il pianeta capitale e l’oltre
danzando fantàsia al potere come ieri
per un bacio che addormenti la notte
come un'amante che ha giocato a scacchi
e crolla nella casella del matto per caso

(da: Kairós desdichado, Antonino Contiliano, 1998)

Ma a nessuno sia impedito di credere o di sognare con pathos più che con logos!

Nel sistema relazionale la natura e la vita dell’essere umano si spiegano tutte secondo la società, la storia e il linguaggio che modella/simula il mondo o i mondi messi in scena. L’univocità di una dimensione solo orizzontale o solo verticale è stata già messa in discussione dagli stessi pensatori e valorizzatori dell’esistenziale (Kierkegaard, Nietzsche, Marx – “l’esistenza dell’essere umano consiste nell’insieme dei rapporti sociali”, VI tesi su Feuerbach). Non ultimo per importanza vengono la psicoanalisi freudiana, la dimensione del fondo biologico ed emozionale di ciascuno e la connessione/relazione o sconnessione/scissione (parimenti strutturale per ciascuno di noi) tra la mente e il corpo, o la coscienza/logos e l’alterità/pathos interna. Una correlazione che, senza indugi, va rapportata all’extralinguistico e al divenire-mondo nell’interazione e intersezione dell’immanenza processuale che via via si concretizza nel dinamismo delle forme del tempo storico-materiale e metastabile.

Antonino Contiliano